Intervista ad un giovane immaginario: perchè non fate più figli?


L’editoriale della domenica
Intervista ad un giovane immaginario:
Non fate più figli perché vi spaventano i sacrifici e le rinunce, o per altro?
Una volta si facevano tanti figli, non di rado, per poi utilizzarli nei lavori agricoli. Noi cerchiamo di valutare le prospettive per il loro futuro, finalizzate all’obiettivo di una vita serena.
Quindi, pensate che non ci siano possibilità sufficienti per loro?
Le rispondo con una domanda. Premesso che il calo demografico è un problema comune, soprattutto in occidente, in un Paese come il nostro, che negli ultimi decenni ha accumulato un debito pubblico enorme, malamente distribuito viste le diseguaglianze, con le conseguenze che stiamo già vivendo: una sanità universale in sofferenza per scarsi finanziamenti, l’istruzione e la ricerca in
affanno, l’assistenza e persino la previdenza con il futuro oscurato da tante ombre. Pensa che con questi presupposti, sia semplice ambire ad una vita serena?
Se tutti ragionassero in questo modo, si rischierebbe l’estinzione
E’ possibile, del resto però, questo non può autorizzarci a scaricare sulle future generazioni i rischi di un significativo peggioramento della vita rispetto alla nostra. Qualche decennio addietro, il debito pubblico era contenuto, bastava una laurea per ambire a scalate sociali importanti, il nepotismo era sempre fastidioso, ma marginale, esistevano le diseguaglianze e le volgari ostentazioni di ricchezza, ma percentualmente meno invasive delle attuali. Oggi, le giovani generazioni (e non solo) sono umiliate, persino nella dignità del lavoro, spesso malpagato ed a volte precario, con la prospettiva di traguardare una pensione che non sarà sufficiente a garantire una vecchiaia tranquilla, rendite fin d’ora parzialmente colpite, persino nella perequazione.
E’ vero, ma diverse problematiche esistevano anche nel passato.
Si, ma la carenza di cultura amplificava l’ignoranza, che preservava dalla consapevolezza.
Le fanno paura anche i rischi derivanti dai conflitti?
Le guerre le decidono i ricchi ed i potenti, ma sono i figli della povera gente che vanno in trincea, inviati obbligatoriamente per cercare la sopraffazione di altri poveracci come loro, ubicati dall’altra parte di una linea tracciata dagli uomini, quasi sempre con altre guerre. Sono i poveri che si accollano i rischi maggiori, quelli di tornare con la mente devastata dalla disumanità, orrendamente mutilati, feriti, ed in tanti casi, con il biglietto di sola andata. Alla fine dei conflitti, dopo la spartizione dei bottini decisa a tavolino, al popolo rimane il dolore, il ricordo indelebile del l’orrore, la perdita dei cari, le devastazioni nel fisico e della mente, la distruzione delle case, realizzate con una vita intera di lavoro. Le guerre sono moltiplicatrici di sofferenze, usualmente subite, in ordine inversamente proporzionale alle possibilità economiche, strazi, difficilmente barattabili, persino con le promesse di benessere e libertà.
Vede solo ombre per il futuro?
Rimane la luce della speranza o se preferisce, della provvidenza, purtroppo, però, le masse sono spesso succubi dell’”evangelizzazione” derivante dai canali in mano ai pochi, che incanalano i bisogni, i comportamenti, le scelte.
E la speranza?
Per farla nascere serve il seme; per i credenti è stato messo a dimora da circa duemila anni ed affidato all’umanità, ma anziché curarlo, in tanti lo hanno abbandonato ed ora, troppi rovi gli impediscono di germogliare.
CARLO ALBERTO PARI