La Torre d'Avorio di Paola Barbato. La recensione di una "fanatica di libri"
Da questa domenica prende avvio una collaborazione che farà piacere ai lettori del nostro sito amanti di romanzi e non solo. Ogni mese, una volta al mese, Marina Andruccioli*, come lei si definisce “fanatica di libri” ci proporrà una recensione. Oggi iniziamo con La Torre d’Avorio (Neri Pozza), di Paola Barbato.
Devo a mia sorella l’esser venuta a conoscenza negli anni dell’adolescenza di molto del bello che fiorisce in questo mondo, io così concentrata a studiare la Natura ed affascinata dal perfetto meccanismo dell’ambiente che ci circonda, ho scoperto di essere attratta anche da altre forme di altrettanta magnifica bellezza: la musica generata da esseri umani straordinari (lei ascoltava Petrucciani quando in Italia era ancora semi sconosciuto), autori con i quali facevo amicizia nei suoi libri che dormicchiavano sui comodini della nostra cameretta condivisa, ascoltavo i suoi CD (imputo alla colonna sonora del film Lezioni di Piano la mia grande passione per i cantanti che sanno dare il meglio di sé solo voce e piano) e probabilmente devo la mia miopia (!!) anche alla composizione di un puzzle da lei comprato o forse regalato la cui immagine ho amato follemente: Day and Night di M.C. Escher. Si dice di questo artista (cit.Wikipedia): Un’altra tematica fondamentale dell’arte escheriana è quella della compenetrazione tra due mondi differenti. In altre parole Escher spesso si divertì a esplorare le possibilità della visione e a progettare composizioni che, nonostante i limiti fisici imposti dalle dimensioni del supporto, si dilatano ed evocano simultaneamente due mondi differenti. E di giocare con la prospettiva, di creare due mondi differenti nonostante i limiti imposti dalla diversità, dalla ragione comune, dalla realtà, Paola Barbato è davvero una maestra. Avevo già letto “La cattiva strada”, che mi aveva fatto pensare alla penna di questa scrittrice come ad una King in gonnella: in tutti questi anni di lettura non ho ancora trovato uno scrittore o una scrittrice in grado di eguagliare la capacità che ha Stephen King di costruire con l’inchiostro la fragile umanità dei personaggi in modo così efficace da renderli tridimensionali, di portare una situazione all’estremo, di condurci in un labirinto senza apparente uscita, di prenderci per mano (a noi lettori ed al protagonista) e dirci guardandoci bene in viso “e adesso vediamo tutti insieme cosa succede”. Beh, la mia ricerca è finita: Paola Barbato ci riesce benissimo. Se ci lasciamo condurre da questa autrice nel mondo che crea e narra per noi in questo libro, facciamo la conoscenza di Mara Paladini che ha scontato una pena in un istituto psichiatrico per aver tentato di avvelenare la sua famiglia. La troviamo nel suo appartamento dove vive con una nuova identità e dove si è creata un accettabile equilibrio nella torre d’avorio in cui si sente al sicuro per tentare di conciliare la sua vera natura con la vita che le è stata assegnata dai servizi sociali, e per provare a ricominciare. Ed ecco che già intravediamo due realtà opposte, specchiate, tasselli che si fondono per creare una realtà che cambia, muta ad ogni pagina, si trasforma e si complica senza nessuna logica e apparente spiegazione. Proprio come nelle immagini di Escher possiamo scorgere l’illusione, osserviamo come ogni cosa si trasforma in qualcos’altro, vediamo la prospettiva che cambia e l’immagine di un mondo surreale le cui regole ci sono ignote e si capisce sin dalle prime pagine che tutti gli sforzi che Mara ha fatto per rinchiudersi nella Torre d’Avorio che si è costruita per tenere lontana la sua vera natura dal mondo non sono serviti a nulla e quando il suo vicino di casa viene avvelenato esattamente con lo stesso veleno che lei stessa usava un dubbio si insinua nella mente: qualcuno sa chi sono davvero e sta tentando di incastrarmi? E se fosse vero, per quale motivo? La Barbato percorre quel sentiero a me tanto caro, quello ai bordi della via, meno battuto ed un pochino pericoloso, poco illuminato ma se ci voltiamo le vediamo ancora le persone che passeggiano poco lontano da dove ci troviamo noi, la normalità della vita che ci lasciamo poco a poco alle spalle e che un passo dopo l’altro ci fa pensare che sia forse pericoloso, ma in fondo è comunque ben illuminato, che male può fare se lo percorriamo ancora per un po’? Ci mostra il lato di quel pendio affascinante ma che ha tanti chiaroscuri, e ci sospinge con questo suo modo di scrivere nelle pagine ricche di tensione che cresce riga dopo riga esplorando la prospettiva che tentiamo di tenere a fuoco ma che ci sfugge; indaga la malattia psicologica, ci mostra come la psiche sempre più avviluppata dai rovi della storia si dibatta tra ascoltare la razionalità e l’impulso della propria natura, ci mostra la lealtà dell’amicizia e la profondità dei legami nati nel reparto psichiatrico, tra strategie di sopravvivenza tutte al femminile e il continuo dubbio su cosa sia reale e cosa uno scherzo della propria psiche logorata e ferita dai propri errori. Un libro imbevuto di forti tensioni e di tanta tenerezza, di continui rovesci e di mirabili personaggi, la tensione che aumenta come diminuisce lo spazio fra le pareti del dedalo nel quale ci inoltriamo. Un libro da leggere assolutamente.
*Marina Andruccioli risiede in provincia di Rimini dove, da Agraria, si è occupata del verde pubblico, ora è impiegata. Affascinata dall’animo umano quanto dalla Natura e dall’ambiente che ci circonda, esamina questi due ambiti come se fossero uno solo: nel suo modo di pensare interno ed esterno stessa cosa sono. Continua quindi ad approfondire queste due passioni: la Natura ed il mondo esterno e la natura umana ed il mondo interno. Fanatica di libri sin da piccola è anche fotografa appassionata.
Scrive recensioni sul sito www.bookavenue.it