Molotov al centro profughi, presi gli autori del gesto
“Un petardone”, così i cinque ragazzi responsabili della “bomba carta” lanciata contro il centro di accoglienza migranti di Spadarolo gestito dalla Cooperativa Cento fiori, hanno definito la molotov scagliata contro l’ingresso dell’edificio nella notte del 31 ottobre 2018.
Secondo quanto riportato questa mattina dalla stampa locale, i ragazzi sono stati individuati dai carabinieri del Nucleo investigativo guidato dal maggiore Maurizio Petrarca. Ad indirizzare gli inquirenti verso i colpevoli sarebbero stati la bottiglia d’acqua e il tovagliolo utilizzanti, presi dal ristorante del padre di uno dei cinque.
Ora sono provvisoriamente accusati di danneggiamento, fabbricazione e detenzione di materiale esplodente, mentre è ancora da definire l’aggravante di odio razziale. E su questo si gioca una partita non solo giudiziaria ma anche sociale.
Gli stessi ragazzi – tra cui il figlio del proprietario del ristorante della zona, minorenne, primo a farsi avanti – minimizzano il gesto, parlando di bravata, di scherzo. “Non è stato l’unico petardone che abbiamo lanciato quella notte”, dichiarano.
Eppure la scelta dell’obiettivo è comunque sintomatica di un clima particolarmente pesante.
“Il senso comune ci dice che è una cosa inspiegabile – commenta Wiliam Zavoli, psicologo della cooperativa Il Millepiedi – potrebbero essere i miei figli, sono quasi sempre dei ragazzi di buona famiglia. Dal punto di vista psicologico è il gesto di un ragazzo che vuole incentivare un’identità fraintesa, ma adulta. In questi casi la prima cosa che si fa è tentare di eliminare quella discrepanza cognitiva tra un gesto del genere e il desiderio di farlo, e quindi lo si minimizza, lo si riduce a qualcosa di meno significativo, una bravata, appunto”.
Già dal giorno successivo all’accaduto, il centro di accoglienza aveva ricevuto decine di messaggi di solidarietà, sia dagli esponenti politici che da semplici cittadini, e tutti i residenti della zona hanno tenuto a specificare che non ci sono mai stati problemi di convivenza. Allora da dove nasce un atto del genere?
“Non si nasce razzista in una famiglia che non lo è – prosegue Zavoli – ma ci sono vari modi per diventarlo. In adolescenza uno deve capire chi è, soprattutto all’interno del gruppo. Io sono come lui o diverso da lui è una domanda che tutti ci facciamo specie in quell’età. In questo momento storico il principale elemento a cui aggrapparsi per sentirsi uguali o diversi dagli altri è la discriminazione razziale e più questa è data come possibilità di differenziarsi per diventare adulti, più i ragazzi la fanno propria. E molto spesso noi deleghiamo l’educazione ai messaggi che vengono da fuori. Il problema è il silenzio di chi è contrario. Spesso anche se sono contro, faccio fatica a infilarmi in un discorso del genere e lascio che quello che viene da fuori vada a influenzare ciò che pensano i ragazzi. Il problema è il mondo adulto e i messaggi che manda”.
I ragazzi sono tutti dispiaciuti e pentiti. E gli adulti?