Giovane donna morì per shock settico post operatorio. Risarcimento per 1 milione di euro


Doveva essere un intervento di routine per l’asportazione di calcoli renali ma costò la vita ad una giovane donna riminese. La 37enne era stata ricoverata all’ospedale Maggiore di Bologna nel settembre 2009 per un’operazione programmata ma mentre era in sala operatoria i chirurghi avevano interrotto l’operazione perché erano intervenute delle complicanze. Dopo 3 giorni la paziente era deceduta per uno shock settico, nonostante i tentativi dei sanitari di salvarle la vita. La 37enne aveva lasciato nel più totale sgomento i familiari, che avevano deciso, assistiti dagli avvocati Saverio Bartolomei e Jessica Rogazzo, di intentare una causa penale nei confronti dei medici che la avevano operata. Il procedimento però era finito in un nulla di fatto. Il PM aveva chiesto l’archiviazione, accolta dal GIP, perché le perizie non mostravano negligenza od imperizia da parte di chi era intervenuto. Contemporaneamente era partito il processo civile nei confronti dell’Ausl di Bologna per ottenere il risarcimento. Ora, dopo 14 anni e tre gradi di giudizio, arriva la sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato l’azienda sanitaria emiliana a pagare 1 milione di euro: oltre 600mila euro ai familiari che si erano costituiti parti civili, il marito, la figlia e il fratello della donna a cui si aggiungono altri 330mila euro per il secondo figlio. In sede di cassazione i giudici hanno stabilito in via definitiva che la causa del decesso è stata l’insufficiente raccolta dei data anamnestici di una persona che aveva una pregressa storia clinica di infezioni urinarie: “sarebbe stato necessario – sentenzia la Cassazione -, alla stregua delle Linee guida applicabili in materia, elaborate a livello europeo (EAU) e nazionale, nello specifico dalla Società italiana di urologia, procedere a approfondite analisi preoperatorie al fine di determinare se l’infezione era ancora attiva, al fine di prescrivere appropriata terapia antibiotica, a più elevato dosaggio di quella che venne in concreto effettuata e per un tempo necessariamente più lungo, con prosecuzione nella fase postoperatoria“. E ancora: “in considerazione della sua storia clinica, dovevano essere effettuate indagini mirate, pur in assenza di sintomi quali la iperpiressia, il bruciore urinario persistente e il malessere generale“.
“Dopo 14 anni è stata accertata la responsabilità – ha spiegato l’avvocato Saverio Bartolomei – ed è stata emessa una sentenza non più impugnabile che sancisce il risarcimento per i miei assistiti. Lo stesso importo riconosciuto alla figlia della vittima, 329mila euro, sarà liquidato anche al secondo figlio della 37enne che, per strategia processuale, non era stato coinvolto nel procedimento. A favore di quest’ultimo, sulla base della decisione della suprema corte, è già stato depositato un atto che impone all’Ausl di Bologna di liquidare quanto stabilito dalla Cassazione”
Gli avvocati che hanno assistito la famiglia.