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La storia di Giacomo e il suo Miracle

Giacomo Pacassoni, classe 1981, è un giovane medico riminese, specializzato in medicina del lavoro. Lo incontro in piazza Cavour per farmi raccontare quello che ha fatto. Ci conosciamo da un paio di settimane, da quando ho avuto l’occasione di presentarlo alla Giornata del Rifugiato che si è svolta a Rimini il 22 giugno: perché Giacomo è il medico volontario che ha fatto nascere la bimba Miracle sulla nave Open Arms della Ong spagnola Proactiva, lo scorso 6 settembre 2017.
Ma è riminese? Tutti si chiedono quando scoprono la notizia, con un sano orgoglio cittadino che si oppone alla marea, sempre più gonfia, di disinteresse e cinismo di chi vorrebbe lasciare i migranti in balia delle onde. Sì, un ragazzo pacato e tranquillo che arriva come l’ultimo degli ospiti e si siede invece al tavolo dei relatori per raccontare una storia che ha dell’incredibile, con una naturalezza che rende la sua narrazione ancora più straniante.

Giacomo, dove comincia la tua storia di medico sulla Open Arms?
“Lo scorso settembre mi sono imbarcato come medico di base sulla nave Open Arms, nella missione numero 29. È stata una cosa improvvisa. Avevo lasciato loro la disponibilità tanti mesi prima, poi mi hanno chiamato perché erano rimasti senza un collega e io mi ci sono buttato a capofitto. Sono partito per Malta e mi sono imbarcato. Eravamo 18 persone da tutto il mondo: Spagna, Argentina, Australia, Grecia, Inghilterra, Olanda e io, l’unico italiano. Siamo partiti col mare in burrasca e abbiamo raggiunto la zona di soccorso e recupero, nelle acque internazionali al largo delle coste libiche. Non è stato facile, perché nessuno di noi era un lupo di mare. Lì ci siamo divisi con altre barche di altre Ong, la Seafox e la Lifeline, e abbiamo cominciato a pattugliare il mare nella zona che andava da Tripoli a Misurata. Poi, appena il mare si calma arrivano i primi messaggi di aiuto. Ci tengo a precisare che i messaggi di aiuto non arrivano alle nostre navi dalle persone che migrano, ma arrivano dal centro di coordinamento della guardia costiera di Roma. Sono loro che ci chiamano, che ci hanno chiamato perché c’erano quattro imbarcazioni – che in realtà sono delle zattere con delle camere d’aria appiccicate alla bell’e meglio – da recuperare. Ci sono volute altre 14 ore dalla segnalazione al nostro arrivo. Di quattro imbarcazioni ne abbiamo trovate solo due. Abbiamo soccorso queste due zattere e recuperato 230 persone portandole sulla nostra nave”.

Un bel primo viaggio impegnativo. E a questo punto che arriva Peace? La donna ghanese incinta?
“Prima si recuperano le persone più vulnerabili: anziani, disabili e donne incinte. Una delle prime a salire sulla barca è stata Peace, visibilmente incinta con forti dolori. Io le ho chiesto di quanto tempo fosse. Lei mi rispose che aveva finito il tempo. Da quanto tempo hai le doglie? Da tre giorni”.

Durante il racconto Giacomo ogni tanto si ferma, come se i ricordi, le immagini e i momenti gli affollassero la memoria.
“Devi immaginare che questa povera ragazza si è fatta tutto il viaggio con le doglie, e aveva già perso le acque. Quando ha detto di essere incinta sono salito per avvisare il capitano e quando sono sceso, cinque minuti dopo, già si vedeva la testa. Abbiamo cominciato subito”.

Come nei film! Hai anche chiesto: «portate asciugamani e acqua calda?».
“Magari. Immagina il ponte di una nave mosso dalle onde, in cui stanno salendo decine e decine di persone ridotte allo stremo. Eravamo in un angolo, riparati da un telo. Insieme a me due ragazzi volontari, Juan e Pancho, e tre signore, due nigeriane e una marocchina, appena sbarcate, che accudivano la puerpera. L’espulsione è durata trenta minuti. Quando ho alzato Miracle c’è stato un boato di gioia su tutta la nave. Poi ci siamo accorti che non piangeva, non respirava, ed è calato un silenzio greve. Abbiamo cominciato subito le operazioni di rianimazione. Per fortuna, e dico per fortuna, sulla nave c’era una maschera d’ossigeno misura bambino. Tra quella e il massaggio cardiaco in 15 minuti siamo riusciti a farla respirare”.

Un piccolo miracolo.
“Sì, ma non immaginare nulla di bucolico. Pensa a 200 persone che hanno viaggiato per tre giorni senza poter andare mai in bagno, molti dei quali neanche avevano mai visto il mare. Neanche sapevano cosa fosse il mare. L’odore era tremendo: vomito, urina, feci, il sudore di troppe persone stipate in uno spazio troppo piccolo. Miracle non arrivava a due chili di peso. Era impressionante”.

Avevi mai fatto partorire qualcuno?
“No”.

Madre e figlia, Peace e Miracle, vengono poi imbarcate sulla Fregata Zefiro e arrivano prima a Lampedusa, poi a Palermo. Simon, il padre, che non aveva problemi sanitari, viene portato a Pozzallo. Vengono poi riuniti al Cara di Mineo. Entrambi i genitori avevano, all’epoca dei fatti, 25 anni. Hai più saputo nulla?
“No. Ho cercato di contattare il Cara per avere notizie. Volevo sapere come stavano. Ma non essendo parente non ho mai potuto sentirli. Di sicuro so che la bimba, nata in acque internazionali su una nave battente bandiera spagnola ha la cittadinanza spagnola. E questo magari potrà aiutarla in futuro”.

Cosa ti ha spinto a partire?
“Da un lato è una reazione all’egoismo e alla cattiveria che vedo ultimamente. Quello che sentivo, insieme alle persone che erano con me sulla nave, era che potevamo in qualche modo riequilibrare questa cattiveria, questa mancanza di umanità. Nessuno che si chieda mai perché queste persone partano”.

Sembra quasi che vengano a farci un dispetto. Bisogna chiedersele queste cose. Non sono scontate.
“Dall’altra parte forse anche perché io stesso sono nipote di migrante. Mio nonno, dalle colline attorno a Rimini, dalla zona di Montetauro durante la guerra è stato sfollato a Rivabella. Faceva il falegname. Negli anni 50 è partito ed è andato in Argentina, dove c’era lavoro. Mio padre è nato là. Poi è tornato in Italia e qui siamo nati io e mia sorella. Questa cosa fa parte della mia storia personale. L’ho sempre sentita. Non ci ho mai pensato più di tanto. Non avevo mai vissuto la vita della barca, ma ho preso e sono partito perché mi sembrava giusto così. L’ho fatto e lo rifarei”.

Prima di quest’ultimo viaggio, durante gli anni dell’università e della specializzazione, hai già fatto esperienze di volontariato medico?
“Sì. A Bologna per Sokos, associazione che presta assistenza a emarginati e immigrati, e poi durante un viaggio in Ecuador, occupandomi dell’esposizione ai pesticidi dei lavoratori bananieri. Mi sono sempre occupato di politica, non potrei pensare di lavorare e fare qualcosa che non c’entra con le idee che voglio portare avanti. Ho lavorato per due anni all’ASL di Imola, ma ho capito che non era il mio posto. Lo sto ancora cercando, un lavoro, ma ho chiare quali siano le mie direttrici”.

Hanna Arendt scrisse che di carnefici – come Eichmann, come chi volta le spalle alle richieste di aiuto – ce n’erano e ce ne saranno sempre tanti. Sono uomini normali, non particolarmente cattivi o sadici. Uomini che fanno quello che gli si dice di fare, senza prendere posizione.

Allo stesso modo ci sono uomini giusti. Trentasei secondo il Talmud, che non sanno neanche di esserlo, che vivono vite normali e operano per il bene.

È sicuramente una divisione netta, troppo. Ma, per chiudere con un’ultima citazione, di Elie Wiesel: “Bisogna scegliere da che parte stare, perché la neutralità aiuta sempre l’oppressore”. Giacomo ha scelto la sua, senza remore.

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